Argomento del canto
Beatrice è sempre più bella – L’Empireo, il cielo immobile e immateriale – Il fiume di luce e la candida rosa – Il seggio di Arrigo VII
Notte del 31 marzo (o 14 aprile).
I cerchi angelici, in triunfo dintorno al punto, si dileguano come le stelle al sopraggiungere di aurora, la chiarissima ancella del sol. Il venir meno di questa visione e l’amore per Beatrice inducono Dante a guardarla. Una loda che riunisse insieme quanto detto di lei non sarebbe sufficiente a descrivere la sua attuale bellezza così smisurata che solo Dio potrebbe goderla tutta. A questo punto Dante dichiara il suo scacco: ricordare il suo dolce riso priva la sua mente di ogni controllo. Dal primo giorno che ne ha visto il viso fino a questo momento, l’ha sempre cantata, ma or conviene che desista.
Con atto e voce di un duce, Beatrice ricomincia: “Noi siamo usciti dal cielo fisico più grande, il Primo Mobile, per entrare in quello ch’è pura luce, l’Empireo, luce piena d’amore per il vero bene e piena di letizia che supera ogni dolcezza. Qui vederai gli angeli e vedrai i santi con il loro corpo come appariranno nel giudizio universale”.
Come per un lampo improvviso, Dante è accecato, fasciato da un velo di luce viva: Beatrice gli spiega che così Dio saluta chi arriva in questo cielo immobile per prepararlo a sostenere l’incendio della sua vista. Dante capisce immediatamente di avere sormontato le sue capacità visive e di essere in grado ora di sopportare qualsiasi luce.
Vede un lume in forma di fiume fluire fulgido tra due rive dipinte di una mirabil primavera di fiori. Da tale fiume escono faville vive che si posano sui fiori come rubini incastonati nell’oro. Come inebriate dai profumi, le faville si riprofondano nel meraviglioso gorgo e s’una ne entra, un’altra ne esce.
Beatrice -il sol de li occhi miei, scrive Dante- si compiace dell’alto e urgente disio che lo infiamma: Dante vuole aver notizia di ciò che vede, ma prima deve bere di quest’acqua per saziare tanta sete. Deve cioè guardare meglio e capire che il fiume, le faville e i fiori sono anticipazioni di verità che non può ancora comprendere: come un bambino affamato di latte si precipita col volto alla mammella, Dante, per potenziare la sua vista, si china con lo sguardo verso l’onda che da lunga che era è divenuta tonda. I fiori si smascherano in santi e le faville in angeli, ma come è difficile raccontarlo!
In questo cielo, grande più del sole, le creature trovano la loro pace nel vedere il creatore. Come la montagna si specchia nell’acqua alle sue pendici, quasi per rimirarsi, così Dante vede le anime affacciarsi nel lago di luce da più di mille gradini in forma di rosa. La vista di Dante non si smarrisce in questa sterminata visione: lì la legge naturale non ha più valore.
Nel giallo de la rosa eterna, nella sua corolla che profuma di primavera, lo trae Beatrice che gli mostra i beati in bianche stole e i seggi così pieni da poter contenere ancora poca gente. Gli indica un gran seggio con sopra una corona: sarà quello de l’alto Arrigo, l’imperatore che avrebbe potuto drizzare l’Italia se l’avesse trovata disposta. Lo dice Beatrice che aggiunge: “La cieca cupidigia che v’ammalia vi fa simili a un bambino che muor per fame e caccia via la balia. Ci sarà un papa che non sosterrà Arrigo e che Dio manterrà per poco al suo santo incarico: sarà scaraventato tra i simoniaci dove farà scendere più in basso nella buca della pena papa Bonifacio VIII”.
Canto integrale
Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l'ora sesta, e questo mondo
china già l'ombra quasi al letto piano,
quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch'alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così 'l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Non altrimenti il triunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Beatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza ch'io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m'è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l'ultimo suo ciascuno artista.
Cotal qual io lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l'ardua sua matera terminando,
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce:
luce intellettual, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l'una e l'altra milizia
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia».
Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l'atto l'occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m'appariva.
«Sempre l'amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch'io compresi
me sormontar di sopr'a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d'ogne parte si mettìen ne' fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebriate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge;
e s'una intrava, un'altra n'uscia fori.
«L'alto disio che mo t'infiamma e urge,
d'aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest'acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l'usanza sua,
come fec'io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l'onda
che si deriva perché vi s'immegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non sua in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch'io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu' io vidi
l'alto triunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com'io il vidi!
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E' si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne' fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l'infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l'estreme foglie!
La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e 'l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Beatrice, e disse: «Mira
quanto è 'l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant'ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v'è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l'alma, che fia giù agosta,
de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
verrà in prima ch'ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v'ammalia
simili fatti v'ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch'el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d'Alagna intrar più giuso».
I nostri Mecenate
SicComeDante è un progetto gestito dall'Associazione Culturale inPrimis - APS. Se vuoi sostenere questo progetto, puoi fare una donazione e, a seconda dell'importo, sarai pubblicato tra i nostri Mecenate accanto al tuo canto, terzina o verso preferito. Scopri di più o dona ora.