Canto XXIV

e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di sì diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Argomento del canto

Cerchio VIII, Malebolge –  Salita all’argine - Settima bolgia: i ladri – Prima metamorfosi – Vanni Fucci- Profezia


Verso le 10 del mattino del 26 marzo (o 9 aprile). Sabato Santo

Serpenti e ladri

Virgilio fa sbigottire Dante per la sua fronte turbata, ma subito si riprende come un contadinello che vedendo la campagna biancheggiare per la brina si scoraggia, ma riacquista speranza quando in un attimo il mondo cambia faccia e può spingere le sue pecorelle al pascolo.

Arrivati ai piedi del ponte crollato, Virgilio riacquista un’espressione dolce, apre le braccia e, valutando per bene la frana, afferra Dante per sospingerlo verso la cima di un masso assistendolo con consigli alpinistici: “Aggrappati a quella roccia, ma prova prima se ti regge”. Non è una via comoda e forse Dante non ce l’avrebbe fatta se la salita non fosse stata più breve della discesa perché Malebolge pende verso il pozzo centrale e gli argini esterni di ciascuna bolgia sono più alti di quelli interni. Dante crolla seduto spolmonato, ma Virgilio, ripreso il suo ruolo da maestro, lo sprona: “Sedendo tra le piume e poltrendo, non si acquista fama. Alzati e vinci l’affanno. Ci aspetta un’altra salita”. Dante si leva mostrando più lena di quella che si sente: “Va, ch’i’ son forte e ardito”. Per non parere stanco, addirittura parla mentre procede sul ponte dissestato, stretto, malagevole ed erto più del precedente.

Una voce indistinta di chi sembra camminare esce dal fondo scuro del fosso. Per vedere meglio, i due decidono di scendere alla testa del ponte: dentro la settima bolgia un terribile groviglio di serpenti di strane specie. Alla memoria ancora a Dante si rimescola il sangue! Altro che i serpenti della Libia o dell’Etiopia o del Mar Rosso! In mezzo, senza difesa, vi corrono anime nude e spaventate. Hanno le mani legate dietro la schiena con serpi aggroppate davanti che ficcano la coda e ‘l capo lungo le reni dei peccatori. 

Ed ecco che contro uno s’avventa un serpente che lo trafigge tra ‘l collo e le spalle. In un attimo si accende, arde, si trasforma in cenere e poi, di butto, la polvere della combustione che si raccoglie da sé ritorna alla forma originaria come la fenice muore e poi rinasce. Il peccatore si leva smarrito come uno che si riprende dopo uno svenimento. Come è severa la potenza di Dio! Virgilio, il duca, gli domanda chi sia. “Io piovvi qui dalla Toscana poco tempo fa. Mi piacque una vita bestiale e non umana. Son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana”. È un Nero, un nemico e una vecchia conoscenza di Dante che delega Virgilio a interrogarlo, stupito che non sia tra i violenti. Vanni Fucci, che capisce e lo riconosce, indispettito di essere stato individuato, gli rivela di essere lì punito come ladro di oggetti sacri, ma perché non goda della sua pena si drizza verso di lui: “Apri li orecchi al mio annunzio, e odi: ogne Bianco sarà rovinato. E detto l’ho per farti soffrire”.

Testo del canto

In quella parte del giovanetto anno

che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra

e già le notti al mezzo dì sen vanno,


quando la brina in su la terra assempra

l'imagine di sua sorella bianca,

ma poco dura a la sua penna tempra,


lo villanello a cui la roba manca,

si leva, e guarda, e vede la campagna

biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca,


ritorna in casa, e qua e là si lagna,

come 'l tapin che non sa che si faccia;

poi riede, e la speranza ringavagna,


veggendo 'l mondo aver cangiata faccia

in poco d'ora, e prende suo vincastro,

e fuor le pecorelle a pascer caccia.


Così mi fece sbigottir lo mastro

quand'io li vidi sì turbar la fronte,

e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro;


ché, come noi venimmo al guasto ponte,

lo duca a me si volse con quel piglio

dolce ch'io vidi prima a piè del monte.


Le braccia aperse, dopo alcun consiglio

eletto seco riguardando prima

ben la ruina, e diedemi di piglio.


E come quei ch'adopera ed estima,

che sempre par che 'nnanzi si proveggia,

così, levando me sù ver la cima


d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia

dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa;

ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia».


Non era via da vestito di cappa,

ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,

potavam sù montar di chiappa in chiappa.


E se non fosse che da quel precinto

più che da l'altro era la costa corta,

non so di lui, ma io sarei ben vinto.


Ma perché Malebolge inver' la porta

del bassissimo pozzo tutta pende,

lo sito di ciascuna valle porta


che l'una costa surge e l'altra scende;

noi pur venimmo al fine in su la punta

onde l'ultima pietra si scoscende.


La lena m'era del polmon sì munta

quand'io fui sù, ch'i' non potea più oltre,

anzi m'assisi ne la prima giunta.


«Omai convien che tu così ti spoltre»,

disse 'l maestro; «ché, seggendo in piuma,

in fama non si vien, né sotto coltre;


sanza la qual chi sua vita consuma,

cotal vestigio in terra di sé lascia,

qual fummo in aere e in acqua la schiuma.


E però leva sù: vinci l'ambascia

con l'animo che vince ogne battaglia,

se col suo grave corpo non s'accascia.


Più lunga scala convien che si saglia;

non basta da costoro esser partito.

Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia».


Leva'mi allor, mostrandomi fornito

meglio di lena ch'i' non mi sentìa;

e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito».


Su per lo scoglio prendemmo la via,

ch'era ronchioso, stretto e malagevole,

ed erto più assai che quel di pria.


Parlando andava per non parer fievole;

onde una voce uscì de l'altro fosso,

a parole formar disconvenevole.


Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso

fossi de l'arco già che varca quivi;

ma chi parlava ad ire parea mosso.


Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi

non poteano ire al fondo per lo scuro;

per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi


da l'altro cinghio e dismontiam lo muro;

ché, com'i' odo quinci e non intendo,

così giù veggio e neente affiguro».


«Altra risposta», disse, «non ti rendo

se non lo far; ché la dimanda onesta

si de' seguir con l'opera tacendo».


Noi discendemmo il ponte da la testa

dove s'aggiugne con l'ottava ripa,

e poi mi fu la bolgia manifesta:


e vidivi entro terribile stipa

di serpenti, e di sì diversa mena

che la memoria il sangue ancor mi scipa.


Più non si vanti Libia con sua rena;

ché se chelidri, iaculi e faree

produce, e cencri con anfisibena,


né tante pestilenzie né sì ree

mostrò già mai con tutta l'Etiopia

né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.


Tra questa cruda e tristissima copia

correan genti nude e spaventate,

sanza sperar pertugio o elitropia:


con serpi le man dietro avean legate;

quelle ficcavan per le ren la coda

e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.


Ed ecco a un ch'era da nostra proda,

s'avventò un serpente che 'l trafisse

là dove 'l collo a le spalle s'annoda.


Né O sì tosto mai né I si scrisse,

com'el s'accese e arse, e cener tutto

convenne che cascando divenisse;


e poi che fu a terra sì distrutto,

la polver si raccolse per sé stessa,

e 'n quel medesmo ritornò di butto.


Così per li gran savi si confessa

che la fenice more e poi rinasce,

quando al cinquecentesimo anno appressa;


erba né biado in sua vita non pasce,

ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,

e nardo e mirra son l'ultime fasce.


E qual è quel che cade, e non sa como,

per forza di demon ch'a terra il tira,

o d'altra oppilazion che lega l'omo,


quando si leva, che 'ntorno si mira

tutto smarrito de la grande angoscia

ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:


tal era il peccator levato poscia.

Oh potenza di Dio, quant'è severa,

che cotai colpi per vendetta croscia!


Lo duca il domandò poi chi ello era;

per ch'ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,

poco tempo è, in questa gola fiera.


Vita bestial mi piacque e non umana,

sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci

bestia, e Pistoia mi fu degna tana».


E io al duca: «Dilli che non mucci,

e domanda che colpa qua giù 'l pinse;

ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci».


E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse,

ma drizzò verso me l'animo e 'l volto,

e di trista vergogna si dipinse;


poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto

ne la miseria dove tu mi vedi,

che quando fui de l'altra vita tolto.


Io non posso negar quel che tu chiedi;

in giù son messo tanto perch'io fui

ladro a la sagrestia d'i belli arredi,


e falsamente già fu apposto altrui.

Ma perché di tal vista tu non godi,

se mai sarai di fuor da' luoghi bui,


apri li orecchi al mio annunzio, e odi:

Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;

poi Fiorenza rinova gente e modi.


Tragge Marte vapor di Val di Magra

ch'è di torbidi nuvoli involuto;

e con tempesta impetuosa e agra


sovra Campo Picen fia combattuto;

ond'ei repente spezzerà la nebbia,

sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto.


E detto l'ho perché doler ti debbia!».


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