Canto VIII

Fatto m'hai lieto, e così mi fa chiaro, poi che, parlando, a dubitar m'hai mosso com'esser può, di dolce seme, amaro.

Argomento del canto

Nel cielo di Venere, gli spiriti amanti - Carlo Martello si presenta e deplora la condotta degli Angioini - Un dubbio di Dante sull’eredità delle virtù – Necessità di assecondare le diverse inclinazioni umane.


Dopo le cinque pomeridiane del 30 marzo (13 aprile).

La virtù non si eredita

Lo mondo antico ha sempre creduto che la bella Venere raggiasse agli uomini il folle amore e con il suo nome, con il quale inizia il canto, chiamavano il terzo cielo. Dante non si accorge di salire nel cielo di Venere, ma si rende conto d’essercdentro perché vede la sua donna farsi più bella. E come nella fiamma si distingue la favilla e come nel coro la voce singola, Dante vede nella luce di Venere altre luci muoversi a velocità diverse rapidamente verso di loro lasciando l’Empireo. Quelle più innanzi cantano dolcemente “Osanna” facendo nascere in Dante il desiderio di riudirle.

Si fa avanti un lume, solo: “Siamo tutti obbedienti al tuo piacer perché tu possa gioir di noi. Hai già parlato di questo cielo in una tua poesia e siamo sì pien d’amor, che, per piacerti, sarà dolce fermarci un poco”.

Dopo uno sguardo reverente di intesa con Beatrice per averne il consenso, Dante si rivolge con grande affetto a la luce: “Deh, chi siete?” Un’allegrezza nova s’accresce nell’anima che risponde: “Il mondo m’ebbe giù poco tempo; se avessi vissuto più dei miei 24 anni, si sarebbe risparmiato molto male. La mia letizia mi nasconde come la seta fascia il baco. Assai mi amasti e ne avesti ragione: se avessi vissuto di più, del mio amore ti avrei mostrato anche il frutto. M’aspettavano come suo signore da tempo la Provenza e l’Italia meridionale. Portavo già la corona di Ungheria. E la bella Sicilia oggi avrebbe attesi come suoi regi i miei figli, se la mala signoria di mio nonno Carlo I d’Angiò non avesse indotto alla rivolta quei popoli suggetti. E se mio fratello Roberto, nato da avi generosi, potesse riflettere su questo, sarebbe meno avaro ed eviterebbe funzionari avidi”. “Ti ringrazio per avermi dato, con queste parole, la letizia che rimiri in Dio. M’hai mosso però un dubbio: com’essere può amaro il frutto di un dolce seme, come un padre generoso può generare, cioè, un figlio avido”. Questo dice Dante a lui che gli spiega come la provedenza divina passi la sua virtute perfetta ai cieli per influenzare, senza attenzione alle casate di appartenenza, le diverse nature. Dante sa che all’ordine divino ne corrisponde uno terreno: non serve spiegarglielo! Carlo Martello, questo è il nome di questo giovane sovrano, afferma che, per garantire questo ordine terreno, occorre, come ha scritto il filosofo Aristotele, che diversi siano i compiti per le diverse nature e inclinazioni. Per questo uno nasce legislatore, l’altro sovrano, l’altro sacerdote. Non si pensi che queste inclinazioni siano ereditabili: lo dimostrano, per esempio, gemelli tra loro diversi come Esaú e Iacób. “Ora che vedi quello che prima avevi alle spalle, aggiungo un corollario. - continua Carlo Martello - Una semente, fuor dal suo habitat, fa mala prova: è possibile avere nel mondo gente migliore se si asseconda la natura. Torcete a la religione uno nato a cingnersi la spada e fate re chi sarebbe un buon predicatore. Così vi allontanate dalla retta via”.

Testo del canto

Solea creder lo mondo in suo periclo

che la bella Ciprigna il folle amore

raggiasse, volta nel terzo epiciclo;


per che non pur a lei faceano onore

di sacrificio e di votivo grido

le genti antiche ne l'antico errore;


ma Dione onoravano e Cupido,

quella per madre sua, questo per figlio,

e dicean ch'el sedette in grembo a Dido;


e da costei ond'io principio piglio

pigliavano il vocabol de la stella

che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.


Io non m'accorsi del salire in ella;

ma d'esservi entro mi fé assai fede

la donna mia ch'i' vidi far più bella.


E come in fiamma favilla si vede,

e come in voce voce si discerne,

quand'una è ferma e altra va e riede,


vid'io in essa luce altre lucerne

muoversi in giro più e men correnti,

al modo, credo, di lor viste interne.


Di fredda nube non disceser venti,

o visibili o no, tanto festini,

che non paressero impediti e lenti


a chi avesse quei lumi divini

veduti a noi venir, lasciando il giro

pria cominciato in li alti Serafini;


e dentro a quei che più innanzi appariro

sonava 'Osanna' sì, che unque poi

di riudir non fui sanza disiro.


Indi si fece l'un più presso a noi

e solo incominciò: «Tutti sem presti

al tuo piacer, perché di noi ti gioi.


Noi ci volgiam coi principi celesti

d'un giro e d'un girare e d'una sete,

ai quali tu del mondo già dicesti:


'Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete';

e sem sì pien d'amor, che, per piacerti,

non fia men dolce un poco di quiete».


Poscia che li occhi miei si fuoro offerti

a la mia donna reverenti, ed essa

fatti li avea di sé contenti e certi,


rivolsersi a la luce che promessa

tanto s'avea, e «Deh, chi siete?» fue

la voce mia di grande affetto impressa.


E quanta e quale vid'io lei far piùe

per allegrezza nova che s'accrebbe,

quando parlai, a l'allegrezze sue!


Così fatta, mi disse: «Il mondo m'ebbe

giù poco tempo; e se più fosse stato,

molto sarà di mal, che non sarebbe.


La mia letizia mi ti tien celato

che mi raggia dintorno e mi nasconde

quasi animal di sua seta fasciato.


Assai m'amasti, e avesti ben onde;

che s'io fossi giù stato, io ti mostrava

di mio amor più oltre che le fronde.


Quella sinistra riva che si lava

di Rodano poi ch'è misto con Sorga,

per suo segnore a tempo m'aspettava,


e quel corno d'Ausonia che s'imborga

di Bari e di Gaeta e di Catona

da ove Tronto e Verde in mare sgorga.


Fulgeami già in fronte la corona

di quella terra che 'l Danubio riga

poi che le ripe tedesche abbandona.


E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo

che riceve da Euro maggior briga,


non per Tifeo ma per nascente solfo,

attesi avrebbe li suoi regi ancora,

nati per me di Carlo e di Ridolfo,


se mala segnoria, che sempre accora

li popoli suggetti, non avesse

mosso Palermo a gridar: «Mora, mora!».


E se mio frate questo antivedesse,

l'avara povertà di Catalogna

già fuggeria, perché non li offendesse;


ché veramente proveder bisogna

per lui, o per altrui, sì ch'a sua barca

carcata più d'incarco non si pogna.


La sua natura, che di larga parca

discese, avria mestier di tal milizia

che non curasse di mettere in arca».


«Però ch'i' credo che l'alta letizia

che 'l tuo parlar m'infonde, segnor mio,

là 've ogne ben si termina e s'inizia,


per te si veggia come la vegg'io,

grata m'è più; e anco quest'ho caro

perché 'l discerni rimirando in Dio.


Fatto m'hai lieto, e così mi fa chiaro,

poi che, parlando, a dubitar m'hai mosso

com'esser può, di dolce seme, amaro».


Questo io a lui; ed elli a me: «S'io posso

mostrarti un vero, a quel che tu dimandi

terrai lo viso come tien lo dosso.


Lo ben che tutto il regno che tu scandi

volge e contenta, fa esser virtute

sua provedenza in questi corpi grandi.


E non pur le nature provedute

sono in la mente ch'è da sé perfetta,

ma esse insieme con la lor salute:


per che quantunque quest'arco saetta

disposto cade a proveduto fine,

sì come cosa in suo segno diretta.


Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine

producerebbe sì li suoi effetti,

che non sarebbero arti, ma ruine;


e ciò esser non può, se li 'ntelletti

che muovon queste stelle non son manchi,

e manco il primo, che non li ha perfetti.


Vuo' tu che questo ver più ti s'imbianchi?».

E io: «Non già; ché impossibil veggio

che la natura, in quel ch'è uopo, stanchi».


Ond'elli ancora: «Or di': sarebbe il peggio

per l'omo in terra, se non fosse cive?».

«Sì», rispuos'io; «e qui ragion non cheggio».


«E puot'elli esser, se giù non si vive

diversamente per diversi offici?

Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive».


Sì venne deducendo infino a quici;

poscia conchiuse: «Dunque esser diverse

convien di vostri effetti le radici:


per ch'un nasce Solone e altro Serse,

altro Melchisedèch e altro quello

che, volando per l'aere, il figlio perse.


La circular natura, ch'è suggello

a la cera mortal, fa ben sua arte,

ma non distingue l'un da l'altro ostello.


Quinci addivien ch'Esaù si diparte

per seme da Iacòb; e vien Quirino

da sì vil padre, che si rende a Marte.


Natura generata il suo cammino

simil farebbe sempre a' generanti,

se non vincesse il proveder divino.


Or quel che t'era dietro t'è davanti:

ma perché sappi che di te mi giova,

un corollario voglio che t'ammanti.


Sempre natura, se fortuna trova

discorde a sé, com'ogne altra semente

fuor di sua region, fa mala prova.


E se 'l mondo là giù ponesse mente

al fondamento che natura pone,

seguendo lui, avria buona la gente.


Ma voi torcete a la religione

tal che fia nato a cignersi la spada,

e fate re di tal ch'è da sermone;


onde la traccia vostra è fuor di strada».

I nostri Mecenate

SicComeDante è un progetto gestito dall'Associazione Culturale inPrimis - APS. Se vuoi sostenere questo progetto, puoi fare una donazione e, a seconda dell'importo, sarai pubblicato tra i nostri Mecenate accanto al tuo canto, terzina o verso preferito. Scopri di più o dona ora.

Mecenate del Canto VIII

Vuoi sostenere SicComeDante?
Diventa Mecenate

Mecenate della terzina

Diventa Mecenate

Mecenate del verso

Diventa Mecenate

Ricevi tutti gli aggiornamenti

Gruppo WhatsApp Iscriviti alla Newsletter