Canto IX

In sogno mi parea veder sospesa un'aguglia nel ciel con penne d'oro, con l'ali aperte e a calare intesa.

Argomento del canto

Sonno di Dante – Sogno, risveglio e spiegazione del sogno – La porta del Purgatorio e l’angelo portiere – I riti d’ingresso


Dalle nove di sera della domenica di Pasqua alle otto del mattino di lunedì 28 marzo (o 11 aprile).


Sogno e risveglio

In Italia l’Aurora si affaccia al giorno lucente, mentre in Purgatorio la notte con le sue ale avanza verso le nove di sera. Dante, vinto dal sonno, si corica in su l’erba dove siede con Virgilio, Sordello e le due anime appena incontrate. 

Ne l’ora in cui la rondinella presso a la mattina comincia a cantare con malinconia e la nostra mente, più lontana da la carne, formula visioni veritiere, a Dante pare di vedere in sogno sospesa nel ciel un’aguglia con penne d’oro, pronta a calar con le ali aperte. Gli pare di essere sul monte Ida e si sente come Ganimede, un giovane trasportato tra gli dei e rapito da Giove mutato in aquila. Terribile gli pare l’aquila che discende come un fulmine e lo rapisce suso fino alla sfera del fuoco. Lo ’incendio immaginato rompe ‘l sonno. Si risveglia spaventato e ‘ismorto. ‘l sole è già alto da più di due ore e il suo viso è rivolto al mare. Vicino gli è solo il suo conforto, Virgilio: “Non aver paura: semo a buon punto! Tu se’ ormai al purgatorio giunto. Ecco l’entrata! All’alba, quando dormivi sovra li fiori, venne una donna e disse: “I’ son Lucia: lasciatemi pigliare costui che dorme. Gli agevolerò il cammino” Ti prese e io la seguii fino qui dove ti posò. Li occhi suoi belli mi mostrarono quella porta aperta e se n’andò insieme al tuo sonno”. Non appena Virgilio capisce che queste parole hanno rassicurato Dante, si muove con lui che lo segue verso l’altura dove è collocata la porta.

Dante comunica al lettor che innalza la sua materia e lo invita a non meravigliarsi se la rincalza con più arte.

Sotto la porta ci sono tre gradini di color diversi. Sovra il più alto siede un portiere con la faccia tanto luminosa che i due poeti non possono sostenerla. Lo stesso i raggi riflessi dalla spada nuda che l’angelo ha in mano. Li blocca: “Ditemi senza avanzare: che volete voi? Chi vi ha guidato?” Risponde il maestro ricordando la donna del ciel in modo da ottenere l’invito a procedere da parte del cortese portinaio.

Il primo gradino è di bianco marmo sì pulito e terso che Dante vi si specchia. Il secondo è nero di una pietra ruvida e arida crepata da due solchi. Lo terzo sembra di porfido, fiammeggiante come sangue che zampilla dalla vena. La soglia su cui siede l’angel sembra diamante.

Dante, su indicazione di Virgilio, si getta umilmente divoto a’ santi piedi, chiede, battendosi tre volte nel petto, misericordia e invoca l’aperura della porta. L’angelo, che è vestito di un colore cenere o di terra secca, con la punta de la spada incide ne la fronte di Dante sette P: “Quando se’ dentro, cerca di purificarti di queste piaghe”. Apre la porta con una chiave d’oro e una d’argento: le ha avute da san Pietro che gli ha raccomandato di sbagliare piuttosto per clemenza nell’aprire che per severità nel tener chiuso. I due poeti non devono girarsi a guardare ‘n dietro altrimenti vengono ricacciati fuor.

Ruggisce la porta sacra dai cardini di metallo sonanti e forti. Dentro una voce mista a musica intona il “Te Deum laudamus”. Dante non distingue bene le parole come quando si ascolta un canto accompagnato dall’organo.

Testo del canto

La concubina di Titone antico

già s'imbiancava al balco d'oriente,

fuor de le braccia del suo dolce amico;


di gemme la sua fronte era lucente,

poste in figura del freddo animale

che con la coda percuote la gente;


e la notte, de' passi con che sale,

fatti avea due nel loco ov'eravamo,

e 'l terzo già chinava in giuso l'ale;


quand'io, che meco avea di quel d'Adamo,

vinto dal sonno, in su l'erba inchinai

là 've già tutti e cinque sedavamo.


Ne l'ora che comincia i tristi lai

la rondinella presso a la mattina,

forse a memoria de' suo' primi guai,


e che la mente nostra, peregrina

più da la carne e men da' pensier presa,

a le sue vision quasi è divina,


in sogno mi parea veder sospesa

un'aguglia nel ciel con penne d'oro,

con l'ali aperte e a calare intesa;


ed esser mi parea là dove fuoro

abbandonati i suoi da Ganimede,

quando fu ratto al sommo consistoro.


Fra me pensava: 'Forse questa fiede

pur qui per uso, e forse d'altro loco

disdegna di portarne suso in piede'.


Poi mi parea che, poi rotata un poco,

terribil come folgor discendesse,

e me rapisse suso infino al foco.


Ivi parea che ella e io ardesse;

e sì lo 'ncendio imaginato cosse,

che convenne che 'l sonno si rompesse.


Non altrimenti Achille si riscosse,

li occhi svegliati rivolgendo in giro

e non sappiendo là dove si fosse,


quando la madre da Chirón a Schiro

trafuggò lui dormendo in le sue braccia,

là onde poi li Greci il dipartiro;


che mi scoss'io, sì come da la faccia

mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto,

come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia.


Dallato m'era solo il mio conforto,

e 'l sole er'alto già più che due ore,

e 'l viso m'era a la marina torto.


«Non aver tema», disse il mio segnore;

«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;

non stringer, ma rallarga ogne vigore.


Tu se' omai al purgatorio giunto:

vedi là il balzo che 'l chiude dintorno;

vedi l'entrata là 've par digiunto.


Dianzi, ne l'alba che procede al giorno,

quando l'anima tua dentro dormia,

sovra li fiori ond'è là giù addorno


venne una donna, e disse: «I' son Lucia;

lasciatemi pigliar costui che dorme;

sì l'agevolerò per la sua via».


Sordel rimase e l'altre genti forme;

ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro,

sen venne suso; e io per le sue orme.


Qui ti posò, ma pria mi dimostraro

li occhi suoi belli quella intrata aperta;

poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro».


A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta

e che muta in conforto sua paura,

poi che la verità li è discoperta,


mi cambia' io; e come sanza cura

vide me 'l duca mio, su per lo balzo

si mosse, e io di rietro inver' l'altura.


Lettor, tu vedi ben com'io innalzo

la mia matera, e però con più arte

non ti maravigliar s'io la rincalzo.


Noi ci appressammo, ed eravamo in parte,

che là dove pareami prima rotto,

pur come un fesso che muro diparte,


vidi una porta, e tre gradi di sotto

per gire ad essa, di color diversi,

e un portier ch'ancor non facea motto.


E come l'occhio più e più v'apersi,

vidil seder sovra 'l grado sovrano,

tal ne la faccia ch'io non lo soffersi;


e una spada nuda avea in mano,

che reflettea i raggi sì ver' noi,

ch'io drizzava spesso il viso in vano.


«Dite costinci: che volete voi?»,

cominciò elli a dire, «ov'è la scorta?

Guardate che 'l venir sù non vi nòi».


«Donna del ciel, di queste cose accorta»,

rispuose 'l mio maestro a lui, «pur dianzi

ne disse: «Andate là: quivi è la porta».


«Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,

ricominciò il cortese portinaio:

«Venite dunque a' nostri gradi innanzi».


Là ne venimmo; e lo scaglion primaio

bianco marmo era sì pulito e terso,

ch'io mi specchiai in esso qual io paio.


Era il secondo tinto più che perso,

d'una petrina ruvida e arsiccia,

crepata per lo lungo e per traverso.


Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia,

porfido mi parea, sì fiammeggiante,

come sangue che fuor di vena spiccia.


Sovra questo tenea ambo le piante

l'angel di Dio, sedendo in su la soglia,

che mi sembiava pietra di diamante.


Per li tre gradi sù di buona voglia

mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi

umilemente che 'l serrame scioglia».


Divoto mi gittai a' santi piedi;

misericordia chiesi e ch'el m'aprisse,

ma tre volte nel petto pria mi diedi.


Sette P ne la fronte mi descrisse

col punton de la spada, e «Fa che lavi,

quando se' dentro, queste piaghe», disse.


Cenere, o terra che secca si cavi,

d'un color fora col suo vestimento;

e di sotto da quel trasse due chiavi.


L'una era d'oro e l'altra era d'argento;

pria con la bianca e poscia con la gialla

fece a la porta sì, ch'i' fu' contento.


«Quandunque l'una d'este chiavi falla,

che non si volga dritta per la toppa»,

diss'elli a noi, «non s'apre questa calla.


Più cara è l'una; ma l'altra vuol troppa

d'arte e d'ingegno avanti che diserri,

perch'ella è quella che 'l nodo digroppa.


Da Pier le tegno; e dissemi ch'i' erri

anzi ad aprir ch'a tenerla serrata,

pur che la gente a' piedi mi s'atterri».


Poi pinse l'uscio a la porta sacrata,

dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti

che di fuor torna chi 'n dietro si guata».


E quando fuor ne' cardini distorti

li spigoli di quella regge sacra,

che di metallo son sonanti e forti,


non rugghiò sì né si mostrò sì acra

Tarpea, come tolto le fu il buono

Metello, per che poi rimase macra.


Io mi rivolsi attento al primo tuono,

e 'Te Deum laudamus' mi parea

udire in voce mista al dolce suono.


Tale imagine a punto mi rendea

ciò ch'io udiva, qual prender si suole

quando a cantar con organi si stea;


ch'or sì or no s'intendon le parole.


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