Canto X

Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perché qui non si trova.

Argomento del canto

Ripresa della salita fino alla prima cornice – Esempi di umiltà scolpiti nel marmo come fossero in movimento e sonori – I superbi e la loro pena


Dalle otto del mattino a circa le undici di lunedì 28 marzo (o 11 aprile).


A scuola di umiltà

Senza girarsi indietro – che errore imperdonabile sarebbe stato! –, i due poeti passano il soglio de la porta del purgatorio che si apre di rado e si chiude rumorosamente. Salgono per una pietra spaccata che pare muoversi e d’una e d’altra parte come l’onda che fugge e s’appressa. Virgilio dà indicazioni su come procedere in questa salita faticosa che li impegna per più di un’ora.

Arrivano su un pianoro solitario largo circa cinque metri che circonda il monte. È la prima cornice. Dante si è stancato molto ed entrambi sono incerti sulla via da percorrere.

Sono ancora fermi quando sulla parete meno inclinata del monte, su marmo candido, Dante si accorge di intagli che superano in bellezza non solo le opere di grandi artisti, ma la stessa natura. Si succede la rappresentazione di tre episodi resi con tale abilità artistica da sembrare animati da parole, un visibile parlare, quasi un’intuizione del cinema, che Dante attribuisce a Dio, colui che mai non vide cosa nova perché tutto sempre conosce.

La prima scena è quella dell’annunciazione con l’angelo che, in atto soave, si sarebbe giurato ch’el dicesse “Ave!” e la Madonna obbediente “Ecce ancilla Dei”. La seconda, per vedere meglio la quale Dante si fa presso, racconta un episodio biblico, anzi due insieme: l’episodio del trasporto dell’arca santa pericolante con una processione di gente che sembra proprio di sentire cantare e con fummo di incensi che sembra proprio di odorare, e quello della danza del re David, davanti all’arca, umile e più che re allo stesso tempo senza che lo capisca la sua prima moglie Micòl, che lo guarda sdegnata da una finestra d’un gran palazzo. La terza scena rappresenta l’imperatore romano Traiano, a cavallo,  circondato da cavalieri e da insegne imperiali mosse dal vento, convinto da una vedovella a far vendetta di suo figlio morto: il bene che dobbiamo fare noi non ci salva se è fatto da altri. Da questa donna miserella l’imperatore, che grazie alle preghiere di papa Gregorio è stato salvato in Paradiso nonostante pagano, accoglie umilmente questa lezione di giustizia e pietà.

Dante si sta dilettando a guardare queste imagini di umiltà quando Virgilio individua un gruppo che va a passi lenti e che può indicare la via. Dante, sempre desideroso di novitadi, si volge svelto verso di loro, ma non distingue persone e pensa di vaneggiare. È Virgilio che spiega come la grave condizione di loro tomento li rannicchia a terra. A guardar bene sotto a quei sassi si riconoscono delle anime penitenti. Non si spaventi il lettore della pena: pensi, invece, alla beatitudine che ne seguirà! Sono i superbi che, sciocchi, credono in ciò che fa regredire senza accorgersi che siamo vermi nati per trasformarci nell’angelica farfalla dell’anima pura dal peccato.

Come quelle mensole modellate a forma di figura umana con le ginocchia al petto per sostenere solaio o tetto suscitano ‘n chi le vedevera compassione, così quelle anime la suscitano a Dante non appena ne capisce la situazione che è diversa per ognuna: sono più e meno contratte secondo che hanno più e meno peso a dosso. Tutte, anche le più pazienti, sembrano piangendo dire: “Non ce la faccio più”.

Testo del canto

 

Poi fummo dentro al soglio de la porta

che 'l mal amor de l'anime disusa,

perché fa parer dritta la via torta,


sonando la senti' esser richiusa;

e s'io avesse li occhi vòlti ad essa,

qual fora stata al fallo degna scusa?


Noi salavam per una pietra fessa,

che si moveva e d'una e d'altra parte,

sì come l'onda che fugge e s'appressa.


«Qui si conviene usare un poco d'arte»,

cominciò 'l duca mio, «in accostarsi

or quinci, or quindi al lato che si parte».


E questo fece i nostri passi scarsi,

tanto che pria lo scemo de la luna

rigiunse al letto suo per ricorcarsi,


che noi fossimo fuor di quella cruna;

ma quando fummo liberi e aperti

sù dove il monte in dietro si rauna,


io stancato e amendue incerti

di nostra via, restammo in su un piano

solingo più che strade per diserti.


Da la sua sponda, ove confina il vano,

al piè de l'alta ripa che pur sale,

misurrebbe in tre volte un corpo umano;


e quanto l'occhio mio potea trar d'ale,

or dal sinistro e or dal destro fianco,

questa cornice mi parea cotale.


Là sù non eran mossi i piè nostri anco,

quand'io conobbi quella ripa intorno

che dritto di salita aveva manco,


esser di marmo candido e addorno

d'intagli sì, che non pur Policleto,

ma la natura lì avrebbe scorno.


L'angel che venne in terra col decreto

de la molt'anni lagrimata pace,

ch'aperse il ciel del suo lungo divieto,


dinanzi a noi pareva sì verace

quivi intagliato in un atto soave,

che non sembiava imagine che tace.


Giurato si saria ch'el dicesse 'Ave!';

perché iv'era imaginata quella

ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave;


e avea in atto impressa esta favella

'Ecce ancilla Dei', propriamente

come figura in cera si suggella.


«Non tener pur ad un loco la mente»,

disse 'l dolce maestro, che m'avea

da quella parte onde 'l cuore ha la gente.


Per ch'i' mi mossi col viso, e vedea

di retro da Maria, da quella costa

onde m'era colui che mi movea,


un'altra storia ne la roccia imposta;

per ch'io varcai Virgilio, e fe'mi presso,

acciò che fosse a li occhi miei disposta.


Era intagliato lì nel marmo stesso

lo carro e ' buoi, traendo l'arca santa,

per che si teme officio non commesso.


Dinanzi parea gente; e tutta quanta,

partita in sette cori, a' due mie' sensi

faceva dir l'un «No», l'altro «Sì, canta».


Similemente al fummo de li 'ncensi

che v'era imaginato, li occhi e 'l naso

e al sì e al no discordi fensi.


Lì precedeva al benedetto vaso,

trescando alzato, l'umile salmista,

e più e men che re era in quel caso.


Di contra, effigiata ad una vista

d'un gran palazzo, Micòl ammirava

sì come donna dispettosa e trista.


I' mossi i piè del loco dov'io stava,

per avvisar da presso un'altra istoria,

che di dietro a Micòl mi biancheggiava.


Quiv'era storiata l'alta gloria

del roman principato, il cui valore

mosse Gregorio a la sua gran vittoria;


i' dico di Traiano imperadore;

e una vedovella li era al freno,

di lagrime atteggiata e di dolore.


Intorno a lui parea calcato e pieno

di cavalieri, e l'aguglie ne l'oro

sovr'essi in vista al vento si movieno.


La miserella intra tutti costoro

pareva dir: «Segnor, fammi vendetta

di mio figliuol ch'è morto, ond'io m'accoro»;


ed elli a lei rispondere: «Or aspetta

tanto ch'i' torni»; e quella: «Segnor mio»,

come persona in cui dolor s'affretta,


«se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov'io,

la ti farà»; ed ella: «L'altrui bene

a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?»;


ond'elli: «Or ti conforta; ch'ei convene

ch'i' solva il mio dovere anzi ch'i' mova:

giustizia vuole e pietà mi ritene».


Colui che mai non vide cosa nova

produsse esto visibile parlare,

novello a noi perché qui non si trova.


Mentr'io mi dilettava di guardare

l'imagini di tante umilitadi,

e per lo fabbro loro a veder care,


«Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,

mormorava il poeta, «molte genti:

questi ne 'nvieranno a li alti gradi».


Li occhi miei ch'a mirare eran contenti

per veder novitadi ond'e' son vaghi,

volgendosi ver' lui non furon lenti.


Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi

di buon proponimento per udire

come Dio vuol che 'l debito si paghi.


Non attender la forma del martìre:

pensa la succession; pensa ch'al peggio,

oltre la gran sentenza non può ire.


Io cominciai: «Maestro, quel ch'io veggio

muovere a noi, non mi sembian persone,

e non so che, sì nel veder vaneggio».


Ed elli a me: «La grave condizione

di lor tormento a terra li rannicchia,

sì che ' miei occhi pria n'ebber tencione.


Ma guarda fiso là, e disviticchia

col viso quel che vien sotto a quei sassi:

già scorger puoi come ciascun si picchia».


O superbi cristian, miseri lassi,

che, de la vista de la mente infermi,

fidanza avete ne' retrosi passi,


non v'accorgete voi che noi siam vermi

nati a formar l'angelica farfalla,

che vola a la giustizia sanza schermi?


Di che l'animo vostro in alto galla,

poi siete quasi antomata in difetto,

sì come vermo in cui formazion falla?


Come per sostentar solaio o tetto,

per mensola talvolta una figura

si vede giugner le ginocchia al petto,


la qual fa del non ver vera rancura

nascere 'n chi la vede; così fatti

vid'io color, quando puosi ben cura.


Vero è che più e meno eran contratti

secondo ch'avien più e meno a dosso;

e qual più pazienza avea ne li atti,


piangendo parea dicer: 'Più non posso'.


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