Canto XXV

così l'aere vicin quivi si mette in quella forma ch'è in lui suggella virtualmente l'alma che ristette

Argomento del canto

Salita e dubbio di Dante – Risposta di Stazio sulla generazione della vita e sui corpi aerei – la cornice dei lussuriosi


Fra le quattordici e le sedici di martedì 29 marzo (o 12 aprile).


Una lezione di embriologia

Dante, Virgilio e Stazio salgono in fretta perché l’ora non ammette indugio. Sono le due del pomeriggio in Purgatorio e la scala stretta li costringe a procedere uno innanzi altro. Dante, per il desiderio che prova di dimandar, si sente come un cicognin che ha voglia di volare, ma non s’arrischia ad abbandonar lo nido. Virgilio, il dolce padre, se ne accorge e lo invita a esprimersi. “Come possono le anime farsi magre quando non le tocca nemmeno il bisogno di nutrirsi?” è il dubbio di Dante alla cui risposta Virgilio delega Stazio. Stazio dichiara di sentirsi imbarazzato a sostituirsi a Virgilio nella spiegazione della volontà etterna, ma glielo impone l’obbedienza: parlerà non solo della natura delle anime, ma anche della generazione della vita. Il sangue maschile, che è perfetto e prende nel core la facoltà di dare forma alle membra umane, scende dov’è più bello tacer che dire, negli organi genitali cioè, e da qui goccia sovra il sangue della donna nell’utero, che è un naturale contenitore. Qui l’attivo sangue maschile è accolto insieme a quello passivo femminile formando un coagulo che prende vita.

Nasce così l’anima vegetativa come quella d’una pianta che, sviluppandosi in anima sensitiva, si move e sente come una spugna marina. I diversi organi dell’embrione si formano, quindi, dalla virtù del cor del generante che è il padre. In molti savi hanno errato a spiegare come l’anima d’animal –in grado cioè solo di sentire-  diventi in grado di parlare. Stazio racconta la verità che Dante deve predisporsi ad ascoltare: “Non appena al feto si struttura in modo perfetto il cerebro, Dio, il motor primo, a lui si volge lieto e spira uno spirito novo razionale che, con l’anima vegetativa e sensitiva, forma un’alma sola. Perché ti sia chiaro il concetto, considera il calor del sol che si fa vino insieme al liquido che cola de la vite. Alla morte de la carne, l’anima va nell’aldilà, all’Acheronte o al Tevere, con l’umano, il principio vegetativo e sensitivo, e il divino, il principio razionale. Come l’aere impregnata di pioggia scompone i diversi color del raggio di sole nell’arcobaleno, così ogni alma assume virtualmente la forma del suo corpo ed è chiamata ombra. Parliamo, ridiamo, facciam le lagrime e i sospiri che puoi aver sentito per lo monte e per questo sentiamo i disiri che ci affliggono come quello della fame”.

I tre poeti hanno già, nel frattempo, raggiunto l’ultima tortura, l’ultima pena cioè nella cornice dei lussuriosi: la parete del monte balestra in fuori una fiamma che si diffonde quasi fino al margine così da costringerli a camminare ad uno ad uno, con Dante che teme da un lato ‘l foco e dall’altro di cadere giuso tanto più che Virgilio lo esorta a fare attenzione. Spirti tra le fiamme che cantano un salmo attirano lo sguardo di Dante. Sente poi esempi di donne e mariti casti, il primo dei quali è riferito a Maria. Poi segue ancora il canto. Così qui si sana la piaga del peccato.

Testo del canto


Ora era onde 'l salir non volea storpio;

ché 'l sole avea il cerchio di merigge

lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:


per che, come fa l'uom che non s'affigge

ma vassi a la via sua, che che li appaia,

se di bisogno stimolo il trafigge,


così intrammo noi per la callaia,

uno innanzi altro prendendo la scala

che per artezza i salitor dispaia.


E quale il cicognin che leva l'ala

per voglia di volare, e non s'attenta

d'abbandonar lo nido, e giù la cala;


tal era io con voglia accesa e spenta

di dimandar, venendo infino a l'atto

che fa colui ch'a dicer s'argomenta.


Non lasciò, per l'andar che fosse ratto,

lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca

l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto».


Allor sicuramente apri' la bocca

e cominciai: «Come si può far magro

là dove l'uopo di nodrir non tocca?».


«Se t'ammentassi come Meleagro

si consumò al consumar d'un stizzo,

non fora», disse, «a te questo sì agro;


e se pensassi come, al vostro guizzo,

guizza dentro a lo specchio vostra image,

ciò che par duro ti parrebbe vizzo.


Ma perché dentro a tuo voler t'adage,

ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego

che sia or sanator de le tue piage».


«Se la veduta etterna li dislego»,

rispuose Stazio, «là dove tu sie,

discolpi me non potert'io far nego».


Poi cominciò: «Se le parole mie,

figlio, la mente tua guarda e riceve,

lume ti fiero al come che tu die.


Sangue perfetto, che poi non si beve

da l'assetate vene, e si rimane

quasi alimento che di mensa leve,


prende nel core a tutte membra umane

virtute informativa, come quello

ch'a farsi quelle per le vene vane.


Ancor digesto, scende ov'è più bello

tacer che dire; e quindi poscia geme

sovr'altrui sangue in natural vasello.


Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme,

l'un disposto a patire, e l'altro a fare

per lo perfetto loco onde si preme;


e, giunto lui, comincia ad operare

coagulando prima, e poi avviva

ciò che per sua matera fé constare.


Anima fatta la virtute attiva

qual d'una pianta, in tanto differente,

che questa è in via e quella è già a riva,


tanto ovra poi, che già si move e sente,

come spungo marino; e indi imprende

ad organar le posse ond'è semente.


Or si spiega, figliuolo, or si distende

la virtù ch'è dal cor del generante,

dove natura a tutte membra intende.


Ma come d'animal divegna fante,

non vedi tu ancor: quest'è tal punto,

che più savio di te fé già errante,


sì che per sua dottrina fé disgiunto

da l'anima il possibile intelletto,

perché da lui non vide organo assunto.


Apri a la verità che viene il petto;

e sappi che, sì tosto come al feto

l'articular del cerebro è perfetto,


lo motor primo a lui si volge lieto

sovra tant'arte di natura, e spira

spirito novo, di vertù repleto,


che ciò che trova attivo quivi, tira

in sua sustanzia, e fassi un'alma sola,

che vive e sente e sé in sé rigira.


E perché meno ammiri la parola,

guarda il calor del sole che si fa vino,

giunto a l'omor che de la vite cola.


Quando Lachesìs non ha più del lino,

solvesi da la carne, e in virtute

ne porta seco e l'umano e 'l divino:


l'altre potenze tutte quante mute;

memoria, intelligenza e volontade

in atto molto più che prima agute.


Sanza restarsi per sé stessa cade

mirabilmente a l'una de le rive;

quivi conosce prima le sue strade.


Tosto che loco lì la circunscrive,

la virtù formativa raggia intorno

così e quanto ne le membra vive.


E come l'aere, quand'è ben piorno,

per l'altrui raggio che 'n sé si reflette,

di diversi color diventa addorno;


così l'aere vicin quivi si mette

in quella forma ch'è in lui suggella

virtualmente l'alma che ristette;


e simigliante poi a la fiammella

che segue il foco là 'vunque si muta,

segue lo spirto sua forma novella.


Però che quindi ha poscia sua paruta,

è chiamata ombra; e quindi organa poi

ciascun sentire infino a la veduta.


Quindi parliamo e quindi ridiam noi;

quindi facciam le lagrime e ' sospiri

che per lo monte aver sentiti puoi.


Secondo che ci affiggono i disiri

e li altri affetti, l'ombra si figura;

e quest'è la cagion di che tu miri».


E già venuto a l'ultima tortura

s'era per noi, e vòlto a la man destra,

ed eravamo attenti ad altra cura.


Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,

e la cornice spira fiato in suso

che la reflette e via da lei sequestra;


ond'ir ne convenia dal lato schiuso

ad uno ad uno; e io temea 'l foco

quinci, e quindi temeva cader giuso.


Lo duca mio dicea: «Per questo loco

si vuol tenere a li occhi stretto il freno,

però ch'errar potrebbesi per poco».


'Summae Deus clementiae' nel seno

al grande ardore allora udi' cantando,

che di volger mi fé caler non meno;


e vidi spirti per la fiamma andando;

per ch'io guardava a loro e a' miei passi

compartendo la vista a quando a quando.


Appresso il fine ch'a quell'inno fassi,

gridavano alto: 'Virum non cognosco';

indi ricominciavan l'inno bassi.


Finitolo, anco gridavano: «Al bosco

si tenne Diana, ed Elice caccionne

che di Venere avea sentito il tòsco».


Indi al cantar tornavano; indi donne

gridavano e mariti che fuor casti

come virtute e matrimonio imponne.


E questo modo credo che lor basti

per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia:

con tal cura conviene e con tai pasti


che la piaga da sezzo si ricuscia.

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