Canto XX

Maladetta sie tu, antica lupa, che più che tutte l'altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa!

Argomento del canto

Invettiva contro l’avarizia – Esempi di povertà e generosità – Ugo Capeto e sua requisitoria contro i re di Francia – Modalità di esposizione degli esempi di avarizia punita – Il terremoto


Prime ore del mattino di martedì 29 marzo (o 12 aprile).

Maledetta lupa

Dante rinuncia a parlare con il papa che è stato categorico a troncare il discorso: le sue parole sono state come acqua che non ha saziato la sua spugna. Si muove, insieme al suo duca, lungo la roccia perché gli avari sono distesi verso il bordo della cornice. Maledetta sie tu, antica lupa, per la tua fame senza fine cupa: sono le parole di Dante che si chiede quando sarà cacciata dal mondo la lupa-avarizia.

Vanno a passi lenti e scarsi, attenti a l’ombre che sentono pietosamente piangere e lagnarsi quando Dante ode un’invocazione alla dolce Maria e un elogio al suo essere povera nel parturir Gesù. Segue la lode a un console romano del III sec. a.C., il buon Fabrizio, che antepose la virtute della povertà al vizio di una gran ricchezza. Piacciono tanto queste parole a Dante che si spinge oltre per conoscere quello spirto da cui sembrano venute e che sta ancora esaltando la generosità di san Niccolò nei confronti di giovanette salvate dalla prostituzione.

O anima, dimmi chi fosti e perché sola ricordi queste degne lode. La tua parola non sarà senza ricompensa s’io ritorno sulla terra a completare il cammino corto di quella vita che vola veloce al suo termine” così Dante al quale lo spirito si dichiara disposto a parlare senza nulla chiedere solo in considerazione della tanta grazia che luce in lui prima di essere morto. Si presenta come la radice de la mala pianta che la terra cristiana tutta danneggia sì che buon frutto rado se ne coglie. È Ugo Capeto da cui nacquero i Filippi e i Luigi re di Francia. Figliuol d’un macellaio di Parigi, fu erede del potere regale dei Carolingi. Chiede vendetta a Dio per le nefandezze compiute dai re della sua dinastia e di quella successiva degli Angioini che ebbero il controllo della Provenza e da lì iniziarono, con forza e con menzogna, la loro rapina in una sequenza di atti terribili. Profetizza l’inganno che porterà i Bianchi con Dante esuli da Firenze, il vender la figlia da parte di Carlo II d’Angiò, come i corsari fanno con le schiave, in un matrimonio politico, il conflitto di Filippo IV il Bello, il novo Pilato, con il papa Bonifacio VIII fatto prigioniero e deriso e la condanna per eresia dei Templari determinata da interessi economici. L’anima spiega a Dante anche come, in questo girone, si organizzano le lodi della virtù opposta all’avarizia che abbiamo già sentito e gli esempi del peccato punito. Le prime sono recitate durante il giorno, i secondi sette, attinti dalla mitologia, dalla Bibbia e dalla storia romana, di notte. Gli spiriti li recitano insieme con tono talor l’uno alto e l’altro basso. Anche prima Ugo Capeto non ha parlato solo.

Lo hanno appena lasciato e brigano per percorrere più veloci possibile la strada, quando sentono, come cosa che cada, tremar lo monte: un gelo di morte si impadronisce di Dante. Segue da tutte partiun grido e Virgilio si fa verso Dante per rassicurarlo: “Non temere: ci sono io che ti guido!”. Gli spiriti tutti cantano: “Gloria a Dio nell’alto del cielo”. Dante e Virgilio stanno immobili e sospesi fin che ‘l tremar e il canto si concludono. Loro riprendono il cammino santo e l’ombre che giacciono a terra l’usato pianto. Che cosa è successo? Dante non è mai stato così disideroso di sapere, ma non osa chiedere per la fretta e nemmeno capisce con le sue forze. Va così timido e pensoso.

Testo del canto

Contra miglior voler voler mal pugna;

onde contra 'l piacer mio, per piacerli,

trassi de l'acqua non sazia la spugna.


Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li

luoghi spediti pur lungo la roccia,

come si va per muro stretto a' merli;


ché la gente che fonde a goccia a goccia

per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa,

da l'altra parte in fuor troppo s'approccia.


Maladetta sie tu, antica lupa,

che più che tutte l'altre bestie hai preda

per la tua fame sanza fine cupa!


O ciel, nel cui girar par che si creda

le condizion di qua giù trasmutarsi,

quando verrà per cui questa disceda?


Noi andavam con passi lenti e scarsi,

e io attento a l'ombre, ch'i' sentia

pietosamente piangere e lagnarsi;


e per ventura udi' «Dolce Maria!»

dinanzi a noi chiamar così nel pianto

come fa donna che in parturir sia;


e seguitar: «Povera fosti tanto,

quanto veder si può per quello ospizio

dove sponesti il tuo portato santo».


Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,

con povertà volesti anzi virtute

che gran ricchezza posseder con vizio».


Queste parole m'eran sì piaciute,

ch'io mi trassi oltre per aver contezza

di quello spirto onde parean venute.


Esso parlava ancor de la larghezza

che fece Niccolò a le pulcelle,

per condurre ad onor lor giovinezza.


«O anima che tanto ben favelle,

dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola

tu queste degne lode rinovelle.


Non fia sanza mercé la tua parola,

s'io ritorno a compiér lo cammin corto

di quella vita ch'al termine vola».


Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto

ch'io attenda di là, ma perché tanta

grazia in te luce prima che sie morto.


Io fui radice de la mala pianta

che la terra cristiana tutta aduggia,

sì che buon frutto rado se ne schianta.


Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia

potesser, tosto ne saria vendetta;

e io la cheggio a lui che tutto giuggia.


Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;

di me son nati i Filippi e i Luigi

per cui novellamente è Francia retta.


Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi:

quando li regi antichi venner meno

tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi,


trova'mi stretto ne le mani il freno

del governo del regno, e tanta possa

di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno,


ch'a la corona vedova promossa

la testa di mio figlio fu, dal quale

cominciar di costor le sacrate ossa.


Mentre che la gran dota provenzale

al sangue mio non tolse la vergogna,

poco valea, ma pur non facea male.


Lì cominciò con forza e con menzogna

la sua rapina; e poscia, per ammenda,

Pontì e Normandia prese e Guascogna.


Carlo venne in Italia e, per ammenda,

vittima fé di Curradino; e poi

ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.


Tempo vegg'io, non molto dopo ancoi,

che tragge un altro Carlo fuor di Francia,

per far conoscer meglio e sé e ' suoi.


Sanz'arme n'esce e solo con la lancia

con la qual giostrò Giuda, e quella ponta

sì ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.


Quindi non terra, ma peccato e onta

guadagnerà, per sé tanto più grave,

quanto più lieve simil danno conta.


L'altro, che già uscì preso di nave,

veggio vender sua figlia e patteggiarne

come fanno i corsar de l'altre schiave.


O avarizia, che puoi tu più farne,

poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto,

che non si cura de la propria carne?


Perché men paia il mal futuro e 'l fatto,

veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,

e nel vicario suo Cristo esser catto.


Veggiolo un'altra volta esser deriso;

veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,

e tra vivi ladroni esser anciso.


Veggio il novo Pilato sì crudele,

che ciò nol sazia, ma sanza decreto

portar nel Tempio le cupide vele.


O Segnor mio, quando sarò io lieto

a veder la vendetta che, nascosa,

fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?


Ciò ch'io dicea di quell'unica sposa

de lo Spirito Santo e che ti fece

verso me volger per alcuna chiosa,


tanto è risposto a tutte nostre prece

quanto 'l dì dura; ma com'el s'annotta,

contrario suon prendemo in quella vece.


Noi repetiam Pigmalion allotta,

cui traditore e ladro e paricida

fece la voglia sua de l'oro ghiotta;


e la miseria de l'avaro Mida,

che seguì a la sua dimanda gorda,

per la qual sempre convien che si rida.


Del folle Acàn ciascun poi si ricorda,

come furò le spoglie, sì che l'ira

di Iosuè qui par ch'ancor lo morda.


Indi accusiam col marito Saffira;

lodiam i calci ch'ebbe Eliodoro;

e in infamia tutto 'l monte gira


Polinestòr ch'ancise Polidoro;

ultimamente ci si grida: «Crasso,

dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?».


Talor parla l'uno alto e l'altro basso,

secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona

ora a maggiore e ora a minor passo:


però al ben che 'l dì ci si ragiona,

dianzi non era io sol; ma qui da presso

non alzava la voce altra persona».


Noi eravam partiti già da esso,

e brigavam di soverchiar la strada

tanto quanto al poder n'era permesso,


quand'io senti', come cosa che cada,

tremar lo monte; onde mi prese un gelo

qual prender suol colui ch'a morte vada.


Certo non si scoteo sì forte Delo,

pria che Latona in lei facesse 'l nido

a parturir li due occhi del cielo.


Poi cominciò da tutte parti un grido

tal, che 'l maestro inverso me si feo,

dicendo: «Non dubbiar, mentr'io ti guido».


'Gloria in excelsis' tutti 'Deo'

dicean, per quel ch'io da' vicin compresi,

onde intender lo grido si poteo.


No' istavamo immobili e sospesi

come i pastor che prima udir quel canto,

fin che 'l tremar cessò ed el compiési.


Poi ripigliammo nostro cammin santo,

guardando l'ombre che giacean per terra,

tornate già in su l'usato pianto.


Nulla ignoranza mai con tanta guerra

mi fé desideroso di sapere,

se la memoria mia in ciò non erra,


quanta pareami allor, pensando, avere;

né per la fretta dimandare er'oso,

né per me lì potea cosa vedere:


così m'andava timido e pensoso.

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